Tanta confusione e poca razionalità
“Mamma, oggi a scuola c’è la partita di easy basket contro la seconda C. Se hai un po’ di tempo vieni a vedermi?”
“Ma certo, nano, il tempo per venire a vederti lo trovo!”
Era solo un pensiero che è scivolato troppo velocemente ed è venuto fuori senza essere filtrato. E me ne son pentita subito perché odio promettere cose che non sono certa di poter mantenere.
Con un sorriso al silicone che faceva da muro all’incertezza, ho rincarato la dose mostrandomi sicura di ciò che avevo appena detto. Lui era felice. Io dovevo trovare il modo di essere a scuola all’ora della partita.
Per un attimo ho invidiato quelle donne, mamme, che non sono costrette a dover scegliere ogni giorno se dare la priorità al lavoro o alla famiglia. Perché anche se sei fortunata e il lavoro ti piace hai dei doveri.
E la cosa peggiore è che ci sono giorni, come ieri, in cui tutto è già deciso e l’imprevisto non è contemplato.
Seriamente, mi veniva da piangere, perché se c’è qualcuno che ha il potere di farmi sentire più piccola del mio metro e sessantadue e più insignificante di un pantalone beige tonalità cane bagnato, quel qualcuno è uno dei due nani. A scelta.
E poi io odio i bivi.
Così ho anticipato l’ingresso in ufficio, ho ignorato deliberatamente alcune cose che dalla scrivania mi facevano ciao come le capre a Heidi e mi sono fiondata su altre robe che avevano la priorità sulla priorità.
Sono arrivata a scuola sconvolta, come se me la fossi fatta a piedi dall’Albania. La palestra era ancora chiusa. E ho aspettato.
Ho aspettato tre quarti d’ora. Ho imprecato sottovoce per tre quarti d’ora. Ho domato una feroce incazzatura che montava come le chiare d’uovo che – dopo tre quarti d’ora, ve l’ho detto che ero lì da quarantacinque minuti? – erano a neve fermissima. Cemento bianco.
E poi sono entrata e ho fatto la mamma orgogliosa per quindici minuti: sorriso ebete in faccia, cori da stadio, macchinetta digitale nella destra e bandierina oscillante nella sinistra. Tuttapposto.
Quindici minuti. Durante i quali, la sfiga ha deciso, che avrebbero giocato alcune squadre prima di quella del nano. Nove squadre per la precisione. Solo nove.
E così ho dovuto fargli un cenno di dispiacere, sono diventata un’emoticon vivente che mimava lacrime e labbro a parentesi chiusa e me ne sono tornata al lavoro.
Mi ha sostituita IlMaritoIdeale che aveva un’ora buca.
“Mamma ti sono piaciuto in divisa?”
“Si. Eri bellissimo!”
“Hai visto come facevo il tifo?”
“Si. E papà mi ha detto che hai fatto quattro canestri. Sei stato un campione.”
“Eh, lo so. Ero il capitano della mia squadra. Sono felice che sei venuta anche se per un po’.”
Era tranquillo. Io no.
Mi infastidisce sentirmi così. Che è anche difficile spiegare così come.
Così come una che per fare qualcosa di naturale deve nuotare controcorrente.
Così come una che si sente protagonista di una storia piena di preconcetti che ti si appiccicano addosso come le ragnatele nella casa dei mostri.
Così come una che è contenta di vivere una genitorialità condivisa ma alla quale sembra di non essere mai all’altezza della controparte.
Così come una che ha sempre paura di sbagliare.
E questo non mi piace, perché so che alcune emozioni sono solo il frutto di quella storia, ancora troppo radicata, che i confini della maternità combaciano con quelli la genitorialità in senso assoluto. Senza lasciare spazi vuoti. E razionalmente è un concetto che fa a cazzotti onomatopeici con le mie teorie.
Nella pratica non mi piace che Lui, in questa occasione, sia stato più presente di me.
E la cosa divertente è che non c’è nulla di male, anzi, è quello per cui abbiamo lavorato dal primo test positivo. Continuare a crescere i figli nello stesso modo in cui li abbiamo concepiti: insieme.
Ora, emozionalmente, mi sento nella corsia di marcia mentre qualcosa di più veloce mi scorre accanto in quella di sorpasso.
Tanta confusione e poca razionalità.
In bilico tra quella voglia di riconquista di libertà a lotti e quella sensazione di dovere (e non volere) lasciar volare via una farfalla colorata fuori dal barattolo di vetro.
Poi passa vero?
Ciao piacere di conoscerti ho aperto da poco il mio blog, il tuo è molto carino, siccome adoro leggere vedrò di leggere il tuo libro!
Non sono (ancora) madre ma mi capita spesso di leggere post come il tuo. E credo che faccia parte dell’essere donna, di quel senso di perfezione che ci portiamo sempre dietro, di quella voglia di esserci sempre, e non fallire, e non essere da meno di altri/e. Qualcuno sopra lo ha chiamato retaggio culturale, forse e’ vero, e qualcun altro ha scritto che passa. Secondo me non passa. Pero’ ci si puo’ lavorare sopra pensando che hai fatto l’impossibile per esserci.
Lo so che ne riparleremo tra qualche mese. Ma a me questo post e’ piaciuto tanto nella sua trasparente umilta’. Cosa che non tutte hanno notato. Bacio.
Sono contenta che ti sia piaciuto e credo tu abbia ragione riguardo al fatto che, forse, non c’entra tanto con la maternità ma può essere legato al mio perfezionismo del caiser e al non saper delegare certe cose e certe emozioni.
Se hai un minuto e passi da me leggi come mi sento io http://udinelamiacittaenonnapina.blogspot.it/2012/06/mammablogger-no-bloggermamma.html … Sono lontana da casa da lunedì per lavoro. Per ricominciare, per avere una seconda chance eppure mi sento così…così..altalenante tra ciò che vorrei fare e ciò che faccio, tra ciò che vorrei essere e ciò che sono.. Una mediazione costante tra mille paramteri che spesso divergono, che è faticoso tenere assieme, far convergere. Spesso mi chiedo se anche per lui è così, perchè non lo capisco davvero, perchè non so se capita anche a lui quando è lontano di sentirsi perso..forse sì..Ti abbraccio, buona serata, quasi notte 🙂
No, non passa…….e meno male. Non passa nemmeno quando di anni ne hanno 15 e se non ci sei gli fai piu’ che altro un favore!
Oddio mi viene un’amarezza… anche io ho avuto quindici anni però con i miei ho avuto un bel rapporto e se mia mamma non c’era mi mancava. Cazzo quant’è difficile però!
Aspetta: anche noi abbiamo un bel rapporto e anche io credo di mancarle quando non ci sono, ma e’ anche necessario e giusto che mi senta un po’ “ingombrante” e che questo la spinga a cercare altri punti di riferimento…..non siamo noi la risposta al compimento dei nostri figli! Per me non e’ una amarezza, piuttosto una nostalgia, anche fisica. Naturalmente e’ solo la mia esperienza. A proposito: scusa non mi ero firmata…mi chiamo Antonietta
Si, in effetti vista in quest’ottica ci sta. Però, non lo so, fa comunque strano… ^_^
tempo fa una persona mi ha insegnato a vedere le cose con distacco, perchè l’amore non è possesso. e ha ragione, bisogna sapersi distaccare e lasciare libero chi si ama.
i nostri figli non sono nostri, appartengono solo a loro stessi, li abbiamo solo in prestito.
me li farei pure io i problemi. e secondo me non passa, come non passa il dolore del distacco, come non passa che se sono in ufficio e sento mia figlia al telefono devo fare uno sforzo per impedirmi di prendere le scale e andare da lei. Pure se ha sei anni, pure se il mio lavoro mi piace.
E in verità io non lo so se voglio che mi passi, ecco!
Secondo me sono i postumi di una nottata che hai passato sveglia. Vai a letto alle due e poi partorisco pensieri incoerenti. è normale
tu sei stata presente finchè hai potuto, poi c’era il papà, tuo figlio è sereno, ha avuto la soddisfazione di essere capitano, tutto va bene.
ma che problemi ti fai????
Infatti non lo so nemmeno io.
E’ sempre la solita stronzata del retaggio culturale, lotti per rendere i figli indipoendenti e i mariti partecipi e quando ce la fai ti senti esclusa perchè la società non vuole questo, ma si, poi passa
Ah se lo dici tu.