Come una Kay Scarpetta qualunque

kay scarpetta

Il temporale deprimeva la città, le due possenti colonne gemelle che reggevano l’arco d’ingresso della vecchia stazione centrale, sembravano attendermi impassibili, come due vigilanti attendono un prigioniero. Scesi con attenzione per le scale bagnate; il colore grigiastro del marmo consumato, e l‘acqua che scivolava dal primo all’ultimo gradino, li facevano somigliare a delle sottilissime lastre di ghiaccio, rendendo la giornata più triste di quanto già non fosse.
Erano oramai le 23.40 e il rumore della pioggia torrenziale che cadeva infuriata sull’asfalto nero e del vento che soffiava attraverso le fessure degli aspiratori mi tenevano compagnia mentre aspettavo il solito 414 rumoroso e carico di disegni, i quali distoglievano la mia mente dalla disgustosa idea che questo somigliasse ad un lombrico che striscia nel sottosuolo umido.

Nonostante mi sembrasse inutile guardarmi intorno in quella vecchia stazione in cui il tempo sembrava essersi fermato e di cui ormai ogni segreto particolare era ben impresso nella mia mente, ricontrollavo, come di consueto facevo per far passare il tempo, che ogni cosa fosse al suo posto.

L’orologio bianco ondeggiante al centro del corridoio con le sue enormi lancette inchiodate, da quasi dieci anni, alle 09.17 sembrava fissarmi con il suo volto niveo; i poster pubblicitari, oramai consunti e laceri, erano lì da quasi sei mesi; i distributori di bibite danneggiati, arrugginiti e senza più nulla da erogare erano nella loro solita posizione, e le panchine, del loro abituale ed indefinibile colore, aspettavano solitarie, con le aste che sembravano manifestazioni amareggiate del loro eremo, che qualcuno facesse loro compagnia.

Tutto sembrava al suo posto ma quel singolare e sinistro equilibrio che pareva essersi creato, e quel silenzio interrotto solo dallo scroscio della pioggia e dal sibilo del vento, si ruppero allo squillare del mio telefono cellulare. Afferrai il telefono e tolsi la mia mano gelida dalla tasca del cappotto, guardai senza particolare attenzione lo schermo, anche se inconsapevolmente conoscevo già la rauca voce che avrei udito. Accostai velocemente la cornetta all’orecchio.

“Commissario Moretti…” chi altro poteva essere se non lui, Biagio Scagliato “…sembra incredibile Commissario, dopo tutto questo tempo. Di nuovo lui”.

Da quelle poche e confuse parole, ma soprattutto dal groviglio di emozioni che avvertivo nel tono di voce del mio collega avevo capito cos’era successo ma sembrava che non volessi fidarmi del mio intuito e volli assolutamente la certezza: “Ma di chi parli? Calmati e spiegami che succede!”

“Un’altra vittima, Commissario solite caratteristiche. Un’altra tragedia: è tornato!”

Quella sua ultima frase riecheggiò nella mia mente, feci un lungo respiro, mi presi un interminabile attimo di riflessione e nel frattempo vidi scorrere davanti a me gli ultimi anni della mia vita. Dalla fredda mattinata in cui quella insensibile lama di coltello aveva penetrato la sua calda e rosea carne e quel pietoso urlo aveva violato il silenzio dell’alba, con gli alberi che sembravano piangere lacrime di rugiada per quella vita mozzata; al giorno in cui decisi di entrare in polizia, non per sentimento di onestà, ma solo per mancanza di emozioni: non volevo vendetta, non volevo giustizia ma forse semplicemente volevo evitare ad altri il mio stesso destino; dal giorno in cui quell’essere mi scivolò via dalle mani per inutili cavilli burocratici ad oggi: ricomincia la persecuzione, sempre la stessa tecnica, le stesse peculiarità delle vittime, solo per far saltare i nervi a me, una insignificante neocommissario di polizia.

Subito dopo mi vedevo lì ad aspettare immobile senza alcuna manifestazione di dolore o di fastidio per quella telefonata; avvertivo solo un senso di squallore e disgusto e capì che stava diventando una vera e propria guerra personale: non potevo tirarmi indietro!

“Commissario è ancora lì?” mi disse con un tono di voce alquanto infastidito ed agitato.

“Si…dove siete?”

“Piazza S. Mauro, 215 precisamente in corrispondenza dell’istituto dei frati cappuccini.”

“Io sono alla stazione centrale, praticamente dall’altra parte della città. Conosco la strada, cercherò di fare prima possibile.”

“Questa volta ci siamo, questa volta lo becchiamo commissario”.

“Limitatevi unicamente ad avvertire il dott. Mauri, chiedetegli di effettuare una perizia accurata e non prendete nessun altro tipo di iniziativa”.

Risalii le scale bagnate con una certa fretta e prima che me ne rendessi conto ero già fradicia. La pioggia fitta ed incessante non mi permetteva di vedere molto ma riuscii lo stesso a distinguere un taxi che veniva verso di me, mi affrettai a fargli un cenno con la mano. In un istante mi ritrovai con il muso della macchina a cinque centimetri dal mio corpo e un fremito mi scosse, quasi come se quell’auto, simile ad un’arma, mi stesse puntando. Non esitai ad aprire lo sportello e mentre un fetido odore usciva dall’auto mi resi conto che forse quella non sarebbe stata la mia serata fortunata, ma sicuramente la situazione non mi permetteva di essere sofisticata riguardo alle norme igieniche adottate dall’autista.

Mentre cercavo di asciugare un po’ il mio cappotto fradicio gli indicai la destinazione “P.zza S. Pietro”; il driver non mi rispose ma partì immediatamente, quasi avesse avvertito la mia spiacevole fretta.

Continuavo ad asciugarmi e a pensare a questa stupida concatenazione di eventi che continuava ad avvicinarmi sempre di più al mio uomo, all’assassino, fino a farmi poi perdere completamente le sue tracce. Quanto più io mi impegnassi a catturarlo, tanto più lui mi scivolava tra le mani. La mia pazienza stava arrivando ad un limite ma non potevo fare altro che aspettare che lui si tradisse. Ma questa volta, questa volta sarebbe stata quella decisiva; lo avevo promesso a me stessa.

Alzai lo sguardo per controllare dove mi trovassi e come due calamite quegli occhi nello specchietto attirarono i miei; quello sguardo gelido e sottile mi infettò l’anima di un’inspiegabile inquietudine. Improvvisamente il misterioso chauffeur interruppe bruscamente la corsa e si voltò verso di me: “La signora è servita!” mi disse con un tono aspro e al contempo canzonatorio. Lessi il suo compenso sul tassametro e quando allungai il braccio per consegnargli il denaro, con un dolce, ma soprattutto inaspettato gesto, mi accarezzò la mano e nel momento in cui i nostri sguardi si incontrarono mi fece un angelico e tenero sorriso. Si svolse tutto in pochi attimi; ma furono secondi talmente intensi che riuscirono a distogliere la mia, di solito, salda concentrazione, dall’evento più rilevante della serata.

Scesi velocemente dall’auto senza neanche salutare; mi sentivo molto turbata ma sul mio volto regnava la freddezza di sempre.

La pioggia finalmente era cessata ma ormai ero fradicia e infreddolita; attraversai, il più velocemente possibile, la piazza deserta e mi trovai di fronte all’enorme portone che mi avrebbe introdotto prima nel cortile del palazzo e poi nell’appartamento della vittima. Mentre salivo le scale non potevo fare a meno di pensare a quel brivido, a quegli occhi che, in un istante, si erano di prepotenza impadroniti della mia mente; quel semplice sguardo, per la prima volta dopo anni, mi aveva, anche se per un banale momento, fatto vibrare lo spirito. Un’emozione forse troppo intensa per essere descritta ma troppo breve per essere rivissuta.

Percepii un leggero vociare che fermò quell’altalena che dondolava da un pensiero all’altro nella mia testa. Mi trovavo in un lungo ingresso che introduceva negli appartamenti del condominio un posto molto elegante; era inevitabile non notare il lusso di questo posto. Da un lato sopra le finestre i pesanti tendaggi dorati cadevano morbidamente su lunghi teli di organza panna che avvolgevano ogni finestra; da qualcuna delle tende rimaste semichiuse si riusciva a scorgere i mosaici di vetri colorati che delimitavano ogni apertura; dall’altro lato in corrispondenza di ogni finestra un secretaire manteneva un vaso colmo di molteplici varietà di fiori freschi che profumavano il foyer. Una stravagante carta da parati avvolgeva pareti e soffitto e sembrava sorreggere quegli enormi e pesanti lampadari in cristallo che pendevano, come spade di Damocle, sulle teste di chiunque attraversasse quel corridoio.

L’appartamento della vittima era reso inconfondibile dalla porta spalancata e dai flash dell’assistente del medico legale, il dott. Mauri, che si scagliavano con violenza sul muro di fronte illuminando gli inserti dorati della carta da rivestimento.

Entrai.

E niente, poi mi sono svegliata e ho capito di non essere Kay Scarpetta! 😛
Prrrrrrr

Categories: My life, Pensieri e parole
Tags: RIFLESSIONI
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Commenti

  1. carpina
    carpina 17 Luglio, 2013, 14:51

    Anche a me piacciono i gialli! 🙂 e siccome sono una specie di detective, ti svelo che nel racconto hai cambiato il nome della piazza (s.mauro e s.pietro)..
    E poi verso la fine, quando parli dell’eleganza del posto scrivi ‘era inevitabile NON notare il lusso…’, io credo ci sia un problema di doppia negazione (immagino volessi dire che ‘era inevitabile notare il lusso’.. Ovvero NON puoi evitare di notarlo.. O forse meglio ‘impossibile non notarlo’.)

    Scusa, ma sto facendo corsi di inglese che mi portano ad analizzare ogni lettura 😛

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    • Serena
      Serena Author 17 Luglio, 2013, 14:54

      Per la piazza si sa, i sogni son confusi 🙂
      Per la doppia negazione in effetti hai ragionissima, grazie per avermelo fatto notare 🙂

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      • carpina
        carpina 17 Luglio, 2013, 16:01

        😀 non avevo pensato all’atmosfera confusa dei sogni!

        A disposizione cara! 😉 anzi, son felice che la cosa non ti abbia scocciata, eheh

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  2. Serena Sabella
    Serena Sabella 17 Luglio, 2013, 14:49

    Ehm… 🙂

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  3. lmalanotteno
    lmalanotteno 17 Luglio, 2013, 12:51

    eheheh fantastico! risogna stanotte!

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